TORNA L’OTTO MARZO, TORNA LA “FESTA” DELLA DONNA.
MA DI QUALE FESTA È DIFFICILE PARLARE, RICORDANDO CHE 120 DONNE IN UN ANNO SONO STATE UCCISE SOLO IN ITALIA (OLTRE META’ DAI PARTNER O EX CONVIVENTI).
A LIVELLO MONDIALE SI STIMA CHE OGNI ANNO 245 MILIONI DI DONNE E RAGAZZE DAI 15 ANNI IN SU SUBISCONO VIOLENZA.

Il titolo di uno dei tanti convegni organizzati per la ricorrenza dell’8 marzo era “Dal codice rosa al codice rosso”.

Il termine “codice” richiama la malattia: i codici si usano per i ricoveri. Vuol dire che sfociano in patologie i rapporti tra i generi.

Patologia è quella dell’uomo che considera la donna un oggetto desiderato, da conquistare e poi da conservare. E se questo “oggetto del desiderio” sfugge si fa di tutto per riprenderlo, salvo eliminarlo perché “se non è proprio non deve essere di nessuno”. Come i bambini che rompono i propri giocattoli pur di non farli prendere da altri. Questa malattia gli specialisti la chiamano sindrome narcisistica o borderline. È una malattia non solo della persona, ma di una cultura perversa che abitua a considerare gli altri come oggetti da sfruttare e da gettare se non servono più, come tutti i beni di consumo.

A questa patologia dell’uomo ne corrisponde una della donna? Gli psicologi dicono che molte donne rischiano di rifugiarsi in modalità di “attaccamento” improprie, inadatte, pericolose perché affidano ad un altro la propria sicurezza e il proprio benessere. Come fanno, necessariamente, i bambini piccoli ancora incapaci di stabilire relazioni paritarie, basate sullo scambio e sulla reciprocità come dovrebbero essere quelle degli adulti. Rischiano così di subirne – perfino di accettarne – le conseguenze, fino a quelle estreme della soppressione della propria dignità e della stessa vita.
Ma anche in questo caso il problema è culturale. La donna come genere più debole, come un bene che aspetta di essere acquistato e protetto, traspare dalla pubblicità e dal marketing. E quasi tutte le culture fanno di tutto per differenziare i ruoli tra uomini e donne, sul piano lavorativo, organizzativo, persino ricreativo. Alcune in modo radicale e fanatico, altre in modo più subdolo dietro l’alibi di difenderne il ruolo di custode della generatività e della famiglia.

Donne afghane, © Steven McCurry

Le stesse società devono poi ricorrere ai “codici” sanitari per aiutare le vittime di un sistema che esse stesse hanno prodotto.

Un altro argomento vorrei suggerire alla riflessione: il colore del codice. Codice rosa, il colore in molte culture attribuito al femminile, per riservare alla donne “quote minime” di ciò che dovrebbe spettare loro per diritto. Adesso per proteggerle si è arrivati al codice rosso, il colore della violenza e del sangue. Codice rosso, scarpe rosse, panchine rosse. Aggiungendo un po’ di giallo che è il colore delle mimose, ma questo solo nel “giorno della donna”, uno su 365. Poi la mimosa appassisce e anche il giallo svanisce. Resta il rosa e, purtroppo, il rosso.

Si può sperare che anche i colori cambino, e si vada verso un arcobaleno in cui ci siano tutte le sfumature, tranne il grigio? E sognare che tutte e tutti possano godere dei colori della vita, senza violenti e senza più vittime, senza più bisogno di codici se non quelli delle emozioni positive e dell’amore, quello vero.

Un sogno da alieno fuori dalla realtà? Una utopia senza futuro, come la giustizia e la pace, ? Come detto nel precedente rapporto, nel vostro mondo tanta gente ha il coraggio di cercare di realizzare i propri sogni. Tanto più aumenteranno i coraggiosi quanto più i sogni saranno condivisi.

Ricordando gli “8 marzo” precedenti…