NEI MIEI REPORT “ALIENI” SONO SOLITO SEPARARE QUELLO CHE APPRENDO DEL VOSTRO MONDO A PARTIRE DALLE IMMAGINI (ESISTE UNA APPOSITA SEZIONE NEL SITO), E QUELLO CHE IMPARO DA ESPERIENZE, CRONACHE, LIBRI, E CORREDO CON IMMAGINI PRESE DAI VOSTRI MEDIA.
STAVOLTA FARO’ UN’ECCEZIONE, PARTENDO DA UNA MIA FOTO PER SVILUPPARE DELLE RIFLESSIONI.
Il tema della foto e delle riflessioni è la morte, argomento già toccato più volte in precedenza. Tema scabroso e difficile da trattare, anche se le cronache lo riportano continuamente in evidenza ma paradossalmente la gente tende a rimuoverlo dalla coscienza (almeno, per quanto riguarda la propria morte).
C’è un giorno all’anno dedicato alla visita dei cimiteri, al ricordo dei propri morti, portando loro dei fiori o in altre culture delle pietre o dei bigliettini.
Trovo interessante andare a vedere cosa succede nei cimiteri in queste giornate di memoria collettiva fra generazioni. L’ho fatto anche quest’anno e vi racconto una esperienza che mi ha molto colpito, e di cui ho colto una testimonianza fotografica, pubblicata nella sezione delle immagini.
Ero nel cimitero di una città affacciata sul mare da cui ogni anno arrivano migliaia di migranti in cerca di una vita migliore, ma tanti perdono la vita in questo disperato tentativo. Una parte del “campo santo” è dedicata proprio ad accogliere i resti di questi sfortunati esuli, periti prima o durante lo sbarco. Molti hanno trovato in mare la loro tomba, altri l’hanno avuta nella terra che cercavano di raggiungere.
Alcune di queste tombe non hanno un nome. Sono come quelle dei militi ignoti, soldati morti in guerra di cui si può ricordare solo in quale battaglia sono stati uccisi. Questi morti sono soldati arruolati volontari in una guerra contro la violenza, le persecuzioni, il razzismo, la fame. Una guerra combattuta con le armi del coraggio e della speranza, della sopportazione delle fatiche e della sfida dei rischi. Perché chi parte sa di rischiare la vita propria e dei propri cari per cercare un futuro migliore. I caduti di questa impari guerra contro la sorte sono sepolti nella terra che ritenevano “sicura” diversamente dalla loro patria.
La sepoltura che ho fotografato oggi è una di queste, di un bambino (o bambina?). Non è una vera e propria tomba perché è solo un insieme di pietruzze, un sasso dipinto, un minuscolo angioletto di terracotta, una girandola che ricorda un movimento che ormai si è spento per sempre. Qualche fiore fresco, insieme ad una rosa di plastica. Ricordi che mani pietose hanno composto per ricordare una vita che non c’è più, travolta dalle onde di un mare che doveva portarla in salvo verso terre “sicure”. Un mare che paradossalmente è stato chiamato “nostrum”, cioè di tutti i popoli che vi si affacciano, ma che alcune nazioni considerano di loro proprietà e vi pongono i confini della patria, sacri e da non valicare abusivamente.
C’è anche una piccola croce di ferro, simbolo quasi certamente estraneo alla cultura da cui il corpo seppellito proveniva. La Croce rappresenta chi è morto per espiare il male del mondo, ma questo male continua ad esistere e miete tante vittime innocenti. Come il piccolo essere sepolto in questa nuda terra. Certamente non ha capito perché lo hanno fatto partire dal luogo dove era nato, né perché la sua vita è finita prima di arrivare alla meta che non conosceva. Non saprà nulla del luogo che lo ha accolto e tenuto per sempre con sé solo come corpo esanime. Pazienza se non ha documenti, non chiederà permesso di soggiorno e tanto meno cittadinanza.
Oggi non c’è vento, e anche la girandola che una mano gentile ha deposto sul tumulo si è fermata. E questo accresce la tristezza dell’alieno che si ferma a guardare, perché adesso davvero si sente alienato rispetto a una dolorosa realtà difficile da capire e accettare.
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