IN UN POST DI QUALCHE SETTIMANA FA COMMENTAVO I GIOCHI OLIMPICI DI PARIGI.
ADESSO STIAMO ASSISTENDO A GIOCHI PARALIMPICI, RISERVATI AGLI ATLETI CON DISABILITÀ. PER ALCUNI SPETTATORI DISTRATTI SOLO UNA APPENDICE MENO IMPORTANTE DI QUELLE “NORMALI”. INVECE MERITANO UNA RIFLESSIONE CHE, COME SEMPRE, VI TRASMETTO PRIMA DI INVIARLA AI MIEI SUPERIORI ALIENI.

Era il 1948 quando il neurochirurgo Ludwig Guttmann organizzò una competizione sportiva per veterani della seconda guerra mondiale che avevano riportato danni alla colonna vertebrale o altre menomazioni. L’inizio di quelle che poi vennero chiamate “paralimpiadi”.

Primo logo dei giochi paralimpici

Il prefisso “Para” deriva da paraplegia. Era direttore di un centro per reduci da infortuni sul lavoro il medico italiano Antonio Maglio, che propose di disputare la prima edizione dei giochi per disabili a Roma nel 1960, in coincidenza con le Olimpiadi. Dal 1976 i giochi furono aperti anche ad atleti con disabilità diverse dalla paraplegia: amputazioni, lesioni spinali, paralisi cerebrali, difficoltà sensoriali, disabilità intellettive, e altre tipologie. In quello stesso anno si tenne in Svezia anche la prima edizione per sport invernali.

Tante le specialità praticate, dalla atletica al nuoto, dal calcio a 5 al ciclismo, e anche canottaggio, equitazione, pesistica, judo e taekwondo, e ancora altri sport. Alcuni atleti gareggiano insieme ad una guida, altri con attrezzature costruite appositamente, come le handbike, il pallone sonoro per gli ipovedenti, gli strumenti per il tiro a bersaglio adattati al tipo di disabilità. Scherma, tennis, e sport di squadra (pallacanestro, pallavolo, rugby) sono praticati in carrozzina.

Gli atleti delle Paralimpiadi sono diversi dagli altri, in tutti i sensi: non guadagnano grandi somme, né sono noti al grande pubblico. Ma traggono dallo sport la soddisfazione di superare il proprio handicap e fare, seppure in modo diverso, quello che fanno i “normali”. Andare oltre le barriere cui sono condannati dalle diversità fisiche e psichiche, congenite alla nascita o subentrate successivamente. Realizzare quella partecipazione sociale che tutti devono poter realizzare. Usare le potenzialità residue rispetto a quelle precluse dalla disabilità (in questi casi il termine “diversamente abili” è azzeccato!).

Queste persone, con la loro passione e dedizione, dimostrano che la vita può essere vissuta in modo dignitoso e soddisfacente anche da chi sembrerebbe destinato a vivere escluso dalla comunità dei “normali”.

E pensare che nella Grecia antica, patria dei primi giochi olimpici, i neonati “difettosi” venivano eliminati, perché considerati errori della natura. E di recente i nazisti escogitarono il famigerato piano Aktion T4 per eliminare fisicamente, o almeno sterilizzare, chi minava la purezza di una razza senza difetti. Ancora oggi in molte culture i disabili sono un peso per la società, e sono oggetto di compassionevole sopportazione se non di fastidio.

Quanto siano aberranti queste teorie e queste pratiche, è provato vedendo lo sforzo degli atleti paralimpici mentre gareggiano, ma anche mentre si allenano quotidianamente. La soddisfazione si legge nei loro visi non solo quando vincono, ma quando realizzano di aver dato il massimo delle loro possibilità.

Dice un’atleta paralimpica che da ragazzina si era fratturata la colonna vertebrale: “Non ho mai negato o rimosso la mia disabilità, ma non ho nemmeno reso la sedia su cui sono relegata protagonista della mia vita. Cerco di fare al meglio con quello che ho … il mio motto è: Non è normale avere una disabilità, perché toglie qualcosa. Ma è normale fare di tutto perché l’accento non sia posto su ciò che non c’è.”

Secondo Luca Pancalli, presidente del Comitato paralimpico italiano, “Il mondo paralimpico è il paradigma di ciò che vorremmo accadesse nella società: lo sport che si fa strumento di trasformazione sociale. Noi diamo ai nostri ragazzi l’opportunità di guardare a ciò che hanno, e non a ciò che hanno perso. Trasformiamo le debolezze in abilità”.

Nello slogan dei giochi paralimpici si dice che la competizione sportiva “normale” e quella per disabili hanno una visione comune: “lo sport cambia le vite delle persone”. Profondamente vero, specie se la persona nella sua vita deve recuperare un handicap che ha dovuto subìre e dal quale vuole riabilitarsi. Con l’aiuto della propria volontà, e con il sostegno di tutti.